martedì 7 marzo 2017

Spigolatura sui grandi compositori europei del ' 900 “Maurice Ravel”



Il secolo XX è costellato di personalità musicali di portata epocale, che, pur avendo realizzato forme d'espressione assai diverse, e spesso addirittura antitetiche, sono tuttavia accomunate da una sorta di denominatore comune, che è la volontà di rinnovare, in varie direzioni, il linguaggio musicale, ed esprimere, seppur in diversa misura, il profondo disagio dell'uomo nel XX secolo, difronte alla lacerante crisi prodotta dai due conflitti mondiali e al fallimento clamoroso del Positivismo e del progresso scientifico, rivelatosi assolutamente incapace di dare una risposta ai più drammatici interrogativi esistenziali dell'uomo stesso.
La produzione artistica compresa tra la fine dell'800 e l'inizio del nuovo secolo è tuttavia di altissimo livello (basti pensare ai romanzi di Proust, Musil, Thomas Mann, Hemingway, Zweig, Bulgakov, Borges, Garcia Marquez, ecc. ai dipinti di Klimt, Munch, Egon Schiele), mentre in ambito musicale, l'influenza delle sconvolgenti innovazioni wagneriane, anche molti anni dopo la morte del compositore (1883), era ancora così forte da riverberarsi anche sul nascente Simbolismo francese, che vedeva la realtà visibile continuamente collegata a quella invisibile, di cui costituiva una sorta di “specchio “ simbolico.
Sul crinale tra '800 e '900 si colloca la figura e l'opera di Maurice Ravel, nato nel 1875 a Cibour, paesino dei Pirenei Atlantici, da PIERE JOSEPH, ingegnere svizzero, e MARIE DELOUART, di origine basca. Dall'interesse del mondo spagnolo, egli attinse per un colorismo acceso e iridescente, ma mai scontato e volgare, affidato agli strumenti d'orchestra (“Rhapsodie espagnole”1907), per valorizzarli finalmente nella singolarità dei rispettivi timbri, più che raggrupparli nelle tradizionali “famiglie”.
Accanto ad un prezioso gusto armonico, i tratti della sua maturità stilistica vengono puntualizzandosi nella spiccata tendenza alla linearità melodica, già presente nelle prime significative composizioni di fine ottocento, ( quali il “MENUET ANTIQUE” per pianoforte, la prima versione dell ' HABANERA per due pianoforti, poi orchestrata come terzo movimento della Rapsodia Spagnola- o la PAVANE POUR UNE INFANTE DEFUNTE (1898).
Ravel concorse per tre volte al PRIX DE ROME, che però non gli venne mai concesso; il terzo fallimento (1905) suscitò, anzi, polemiche tali, da provocare le dimissioni del Direttore del Conservatorio, DUBOIS, che venne sostenuto da GABRIEL FAURE', maestro di Ravel.
La pubblicazione, nel 1901,del celebre brano per piano forte “JEUX D'EAU” fece momentaneamente considerare Ravel come un epigono di Debussy, di cui il brano ravelliano ricordava l'armonia modale e l'uso delle scale per toni interi- ma, nonostante gli inevitabili stilemi comuni- come quelli desunti dalla musica orientale, o dall'antico “clavicembalismo” francese, o ancora dal Jazz americano- ben presto Ravel rivendicò la propria assoluta originalità rispetto al suo assoluto “ avversario”, spingendosi, da una parte, molto più lontano di Debussy nel trattamento ardito e libero delle dissonanze, ma non disgregando, dall'altra, i presupposti del sistema tonale, mantenendosi, piuttosto, sempre all'interno di un binario costruito con chiarezza e razionalità di forme e nitidezza della melodia, cui le “brume” e gli “agglomerati sonori” di Debussy rimangono sostanzialmente estranei.
Accostatosi molto facilmente alla musica da camera, Ravel componeva, nel 1902, il “QUARTETTO” d'archi, lavorava alla “INTRODUCTION ET ALLEGRO” per arpa, flauto, clarinetto e archi e contemporaneamente, al capolavoro pianistico “ GASPARD DE LA NUIT” e al balletto”DAPHNIS ET CLOE', commissionatagli da DIAGHILEV.
Alla vigilia del primo conflitto mondiale, l'ascolto sconvolgente del “PIEROT LUNAIRE” di SCHOENBERG favorì la composizione del “TROIS POEMES DE MALLARME'”, e del “TRIO” per pianoforte ed archi. La guerra provocò nel musicista una profonda crisi interiore. Definito “inabile” per l'arruolamento in aviazione, a causa della sua delicata costituzione fisica, partì ugualmente, nel 1916, per il fronte di VERDUN, come conduttore di autocarri. Definitivamente riformato in seguito ad un delicato intervento chirurgico , rientrò nel 1917 a Parigi, in tempo per assistere la madre morente. Frutto della sua esperienza bellica fu “ LE TOMBEAU DE COPERIN”(poi orchestrato), omaggio ai commilitoni caduti in guerra.
Nel 1919, quando soffriva già gravemente di insonnia, compose, ancora su invito di DIAGHILEV, il vasto poema coreografico “LA VALSE” molto ardito armonicamente, ma mai realizzato in veste scenica. I due grandi concerti pianistici ( quello in RE per la sola mano sinistra, irto di dissonanze e difficoltà tecniche, e quello, più disteso, in SOL), composti quasi “in coppia” negli anni 1929-1930, costituirono un'ulteriore conferma del suo genio musicale e della sua straordinaria capacità di “sfruttare” i colori orchestrali, mentre gli approcci al teatro musicale si erano precedentemente concretizzati in due fantasiose e originalissime opere comiche: l' “HEURE ESPAGNOLE”,- Parigi, Opéra- Comique, 191- in cui i personaggi sono tramutati in marionette, grazie alla spietata “meccanizzazione” del ritmo e “L'ENFANT ET LES SORTILEGES”- Montecarlo, 1925- i cui protagonisti sono animali e oggetti inanimati, che si ribellano alla cattiveria di un bambino, finché questi non si ravvede, curando uno scoiattolino. Famosissimo il balletto per orchestra “BOLERO” (1928) che presenta un parossistico crescendo, prodotto dalla ostinata ripetizione degli stessi elementi tematici in un graduale ispessimento del tessuto orchestrale : straordinario sfoggio di maestria strumentale.
Uomo dall'intelligenza brillante e dalla sensibilità acutissima, profondo conoscitore delle strutture e delle possibilità tecniche di tutti gli strumenti grande Maestro dell'orchestrazione (basti pensare al suo stesso “ Ma mere l'oye” o ai celeberrimi “Quadri di un'esposizione” di MUSSORGSKIJ), Ravel rappresenta l'ultimo, riuscito tentativo di recupero della grande tradizione classica, alla luce, tuttavia, di sentimenti raffinati, colori quintessenziali e sfumature preziose e sottili.

Già dagli inizi degli anno Trenta del Novecento, egli fu affetto da disturbi cerebrali sempre più gravi, che finirono per tradursi in progressiva afasia e aprassia. Entrato in coma irreversibile in seguito ad un intervento chirurgico, spirò all'alba del 28 dicembre 1937, senza aver mai ripreso conoscenza. Aveva 62 anni.  

Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara marzo 2017

mercoledì 23 novembre 2016

LA DODECAFONIA



Anche se la “teoria dei dodici suoni” è ormai un “ classico” mi fa piacere ricordarne il significato, a chi volesse accostarvisi o riviverne la fondamentale funzione storica.
Gli anni del secondo conflitto mondiale (1939-'45) segnano in netto distacco tra i prodotti delle generazioni musicali che avevano operato nella prima metà del XX secolo , e quelli dei musicisti nati dopo il 1920. In altra sede, si è accennato all'importanza che, negli anni Cinquanta del Novecento, assunsero i Corsi estivi di Darmstadt ( “FERIENKURSE FUR INTERNATIONALE NEUE MUSIK”),
laboratorio internazionale organizzato da STEINECKE per incontri, discussioni ed esecuzioni di composizioni radicalmente avanguardistiche, sia nella struttura che nella grafica e nella tecnica strumentale.
In tale contesto, l'esperienza dodecafonica occupò un posto di primo piano, grazie anche all'azione divulgativa già precedentemente intrapresa da RENE' LEIBOWITZ (musicologo, direttore d'orchestra e compositore di origine polacca, ma morto a Parigi nel 1972), che, da accanito sostenitore della musica dodecafonica, aveva pubblicato, alla fine degli anni Quaranta, importanti scritti sull'argomento (“SCHOENBERG ET SON 'ECOLE”, 1946 e “INTRODUCTION 'A LA MUSIQUE DE DOUZE SONS”, 1949), presentando e dirigendo personalmente in tutto il mondo opere di ARNOLD SCHOENBERG e dei più grandi discepoli della sua “scuola”. Vale forse la pena ricordare che SCHOENBERG fu l'iniziatore e il protagonista delle più radicali rivoluzioni mai avvenute in campo musicale; data, poi,la sua spiccata vocazione alla teoria e all'insegnamento,egli assunse “naturalmente”, e conserva, un'incontestata funzione di caposcuola, vivificata e “illustrata”, a sua volta, da una imperiosa creazione artistica.
Partito dall'esperienza dell'arricchito cromatismo post wagneriano, SCHOENBERG- attraverso il travaglio della dissoluzione di ogni nesso armonico e della tonalità- ricostruì un nuovo ordine , basato sull'organizzazione seriale dei dodici suoni della scala cromatica, procedendo con una inflessibile logica, fatta anche di rigorosa tensione morale e di profondi valori di fede, che alimentarono la sua vita e ne vivificarono l'impegno. Anche se non usò mai il termine “ATONALE”, da lui ritenuto improprio, né il termine “DODECAFONIA” ( sostituito dall'espressione” metodo di composizione con dodici suoni, liberamente scelti dall'autore, in relazione solo tra loro”), egli procedette, di fatto, alla disgregazione di quel sistema ormai lacerato, corroso e obsoleto che era la “tonalità”, e alla conseguente emancipazione della dissonanza, organizzando però, contro ogni pericolo di anarchia, gli elementi di un nuovo linguaggio, nel quale le dodici note del “totale cromatico” vengono proposte e disposte in tutte le possibili combinazioni “logiche” della serie: verticali, orizzontali, inverse,retrogradi, retrogradi delle inverse e infine anche speculari e circolari, come nella gigantesca opera “MOSES UND AARON”, rappresentata postuma a Zurigo nel 1957.
Tra le composizioni ispirate a tali presupposti compositivi (in cui nessun suono deve prevalere sugli altri, per non rischiare che esso torni a ricoprire il ruolo della tonica!), spiccano le “SERENATE” op. 24, la “SUITE PER PIANOFORTE” op.25, il “WALZER” op.23, “il QUINTETTO” per fiati op.26, e sopratutto le “VARIAZIONI per ORCHESTRA “, op. 31 del 1928.
Anche il suo modo di trattare la voce, di solito accompagnata da pochi strumenti, fu innovativo. Egli adottò infatti lo “SPRECHGESANG” cioè un tipo di emissione tra il parlato e il cantato, con assoluto rispetto del ritmo, ma con continue oscillazioni tra il grave e l'acuto che creano un'atmosfera allucinata, di incerta e solitaria inquietudine, carica di suggestioni emotive. Considerando,poi, fondamentalmente l'arte come veicolo sentimenti e di forme irrazionali che agitano l'uomo, SCHOENBERG si colloca consapevolmente nell'angosciosa realtà della corrente espressionistica, che trova peraltro abbondante riscontro anche nel clima allucinato dei suoi dipinti.

Due grandi discepoli lo seguirono nella sua coraggiosa “avventura” musicale, ALBAN BERG e ANTON WEBERN, ucciso, quest'ultimo, casualmente e per errore da un soldato americano: due talenti,peraltro,
assai diversi tra loro e assolutamente originali: più lirico ed espressivo l'uno (cui non furono estranei recuperi tonali), più essenziale ed aforistico l'altro. La comunanza di intenti fra i tre compositori, la loro amicizia e la stretta collaborazione , hanno indotto i critici a definirli globalmente la “ SCUOLA DI VIENNA”.
-SCHOENBERG si sforzò sempre di adattare i principi della serialità all'esperienza di comunicare con il pubblico; opere dai toni particolarmente forti, come l'”ODE A NAPOLEONE” (contro la tirannide) o la cantata “UN SOPRAVVISSUTO DI VARSAVIA” ( rievocante lo sterminio nazista del ghetto di Varsavia), lo confermano ampiamente.

-SCHOENBERG, nato a Vienna nel 1874, si era trasferito a 17 anni a Berlino, dove nel 1925 succedette a BUSONI, come professore della cattedra superiore di composizione presso l'Accademia Prussiana delle Arti. Dopo il 1933, anno in cui, in Germania, Hitler prese il potere, fu allontanato dall'insegnamento, ed emigrò con la famiglia negli USA, come moltissimi altri protagonisti del mondo dell'Arte. Ma prima di lasciare definitivamente l' EUROPA, egli, benché battezzato cattolico, decise in segno di protesta contro il nazismo, di riabbracciare la religione ebraica.
Nel 1935 fu invitato ad insegnare presso l'Università della California e cinque anni dopo ottenne la tanto sospirata cittadinanza americana. Continuò a comporre fino agli ultimi giorni di vita.
Morì a Los Angeles nel 1951.    


Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara Novembre 2016

venerdì 7 ottobre 2016

Debussy e L'Impressionismo



Il giovane Debussy


Nella seconda metà dell’Ottocento, il progressivo declino del melodramma fu seguito da un auspicato rinnovamento della musica strumentale, sancito dalla fondazione, nel 1871, della “Società Nazionale per la Musica Francese” e, successivamente (nel 1894), dalla “Schola Cantorum”, istituzione scolastica che, in una più o meno esplicita contrapposizione al Conservatorio, rivoluzionava lo studio del canto gregoriano.
Fondatori o membri della “Società Nazionale” francese furono musicisti illustri, quali il “wagneriano” César Franck, il più “accademico” Camille Saint- Saëns e Gabriel Faurè, direttore del Conservatorio di Parigi, “artista della squisitezza e del buon gusto”.
Contemporaneamente, sempre nella capitale francese, si svilupparono, rispettivamente nella pratica della pittura e della poesia, due movimenti artistici che ben presto si rivelarono momenti fondamentali della cultura umanistica europea: l’Impressionismo e il Simbolismo.
L’Impressionismo, che trovò voce ed espressione in Manet, Monet, Degas, Renoir, Pissarro ed altri, valorizzava l’impressione immediata e istantanea dell’artista di fronte il soggetto, spesso ritratto “en plen air”, in condizioni ideali di luce, volto a valorizzare e a rendere vitale il colore, dotato di differenti vibrazioni nelle diverse ore del giorno. L’occhio del pittore coglieva la sensazione visiva di un insieme di colori, non tanto fusi e sfumati, quanto avvicinati e sovrapposti sulla tela, a mò di macchia.


Le ninfee” di Manet


In poesia, il coevo movimento del Simbolismo, rompendo i tradizionali nessi logico- sintattici, mosse i primi passi con le “Correspondences” di Charles Baudelaire, che proponevano ed evocavano immagini poetiche assai ricche di suggestione, tali da essere percepite con tutti i sensi. Nella sua “Art Poétique”- non a torto considerata il “manifesto” della nuova tendenza poetica- Paul Verlaine collocò all’apice dell’Arte la musica, assegnando al resto una semplice funzione di “letteratura”.
La musique avant toute chose. Tout le rest est litérature…”
I Simbolisti infatti ( Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, Maeterlinck, Claudel, Valéry) teorizzarono una poesia dalla forte valenza fonosimbolica, da anteporre i diretti valori significanti, in grado da evocare ricordi e suggestioni emotive che, nascendo dalla sensazione fisica del vago e dell’indeterminato, tendessero a farsi musica, realizzando così un magro punto di incontro tra percezione fisica e uditiva, in nome di tutto ciò che è tenue, intimo, prezioso e raro. L’uso del verso libero, non condizionato da obbligo di rime o da strutture metriche precostituite, contribuì notevolmente al raggiungimento del nuovo fine poetico.
Dotato di una sensibilità per natura assai viva e coloristica, Achille Claude Debussy ( Saint Germain – en Laye, 1862- Parigi, 1918) si fece interprete, in musica, di tali nuove tendenze artistiche, dando vita ad un’arte che coglie sensazioni preziose ed evanescenti, profumi, sottili ebbrezze e “modi di essere” fugaci e cangianti della natura.
Essa rifiuta ogni schema formale, ogni regola “costituita” di composizione, le norma “grammaticali” della tonalità, ogni ordine imposto da “regolari” modulazioni. Le armonie, strane ed inusitate, si giustappongono senza preparazione, rinnovandosi continuamente ed obbedendo alla momentanea ispirazione, mentre i ritmi si rinnovano senza sosta, moltiplicandosi e incrociandosi in un fascinoso gioco, cangiante e mobilissimo.
La voce, sia nell’opera (“Pelléas et Mélisande”, 1902, assoluto capolavoro del teatro musicale moderno, su libretto di Maurice Maeterlinck), sia nelle numerose liriche, si snoda come un’ininterrotta declamazione, duttile e morbida, basata su piccoli intervalli melodici e sorretta da una soffice trama sinfonica, cui è affidato lo sviluppo melodico, accompagnato a sua volta, da un tessuto armonico le cui attrazioni tonali sono neutralizzate o rese ambigue dall’uso delle scale modali, esatonali, pentafoniche e per toni interi.
Per la lotta combattuta, già all’interno del Conservatorio di Parigi, contro ogni dogma accademico ed ogni valore “formale” prestabilito, per il gusto di un discorso musicale assaporato nei suoi singoli momenti, indipendentemente da un “prima” e un “dopo”, l’arte di Debussy è stata battezzata e consacrata col nome di “Impressionismo musicale”, al fine di stabile ed evidenziare un parallelismo atta a collegarla con il coevo movimento pittorico. Tale definizione, tuttavia, seppure valida per una fase dell’opera del musicista [fase che si conclude con il “Pelléas” e comprende, come opere orchestrali, il “Prélude à l’après-midi d’un faune”, con il suo splendido “a solo” iniziale per flauto, e i “Nocturnes” (1897- 1899) e tra le opere vocali, i “Cinc poémes de Baudelaire”, le “Fêtes Galantes” su poesie di Verlaine, le “Chansons de Bilitis” su poesie di Louys e il giovanile “Quartetto d’archi” (1893)], non può essere applicata a tutta la produzione del grande musicista francese, il quale, a partire dai primi anni del ‘900, si accostò ad un senso più classico della costruzione, accentuando anche la precisione e la netta chiarezza, propria della produzione clavicembalistica francese. Tale passaggio è contrassegnato da colori meno evanescenti e costruzioni più solide, rispetto alle tinte trasparenti e sfumate ed agli “agglomerati sonori” dei precedenti lavori cameristici, strumentali e sinfonici. Nelle opere della maturità, Debussy pervenne infatti la totale rifiuto del sistema gerarchico dell’armonia tonale, e ad un uso degli strumenti sempre più attento e selezionato, con in’evidente predilezione per la fluidità sonora dell’arpa ( con gli armonici e i “glissando”), la celesta, lo xilofono e gli ottoni, cui vengono tuttavia richieste ed affidate sonorità ovattate e colori di fondo, più che i classici “squilli”.
L’ideale melodico di Debussy evita ogni appassionata effusione del sentimento, identificandosi piuttosto nell’arabesco, in notazioni raffinate e sottili, ora fantastiche, ora drammatiche, ora leggendarie, ora paesistiche o anche umoristiche e caricaturali. L’arte così personale e soggettiva di Debussy compì una rivoluzione epocale, che percorse molti orientamenti delle più significative espressioni musicali della prima metà del ‘900.
Dopo uno sventato tentativo di suicidio, imputabile forse alla separazione dalla prima moglie, Rosalie Texier, egli sposò in seconde nozze Emma Moyse, divorziata da un ricco bancheire. Ne nacque uno scandalo clamoroso, che gli alienò molte amicizie.


Debussy e la moglie, in seconde nozze, Emma



Al conseguente senso di isolamento, si aggiunsero, poco dopo, le sofferenze provocate da un tumore maligno e dagli orrori del primo conflitto mondiale. Ciononostante, i suoi ultimi anni di vita furono attivi e fecondi: compose infatti la Suite “Iberia” per orchestra, le due serie di “Images” per pianoforte, i due libri di “Preludi” (1905 e 1907), le musiche di scena per “Le Martyre de Saint Sebastien” (su testo di D’Annunzio), il balletto “Jeux” per il grande ballerino e coreografo russo Vaslav Nijinskij, ed infine le tre sonate per violoncello e pianoforte (1915), per flauto, viola ed arpa (1917). Morì nel 1918. Aveva 56 anni. 




Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara Settembre 2016

















sabato 16 luglio 2016

La Palermo musicale degli anni Sessanta: il GUMN - Eliodoro Sollima, “compositore non allineato”




Carissimi lettori, durante l'inverno e la primavera, fino ai primi mesi dell'estate, ci siamo tenuti compagnia con piccoli lavoretti che anno avuto attinenza, in qualche misura con il mondo musicale siciliano. Ciò vi dimostra che io, sebbene non viva più in Sicilia, nutro un fortissimo amore per Palermo. Dove ho lasciato il mio mondo e i miei migliori ricordi e affetti. Dal prossimo settembre curerò una rubrichetta musicale mensile, ancora per l'Associazione palermitana Libere Note, guidata e diretta dai miei carissimi amici. Visto che le sovvenzioni ministeriali e regionali (che consentirebbero di organizzare concerti) mancano del tutto, noi cerchiamo di tenerci ugualmente in contatto tramite questi piccoli articoli, che scrivo per voi con tatto affetto, come se fossi presente. Leggetemi, quindi non perdiamoci di vista. Auguro a tutti buone vacanze per il mese di agosto. Per luglio, comparirà ancora qualcosa che riguarda due grandi espressioni del mondo musicale siciliano: Eliodoro Sollima e Angelo Faja, i cui ricordo e il cui rimpianto non avrà mai fine. Vorrei altresì ricordare anche Roberto Pagano insigne musicista e musicologo che ha onorato e ...divertito la Palermo “musicale” con i suoi scritti e articoli di critica puntuali e pungenti. Battute su eventi, cose e persone. Personaggio indimenticabile, intriso di piacevolissima cultura musicale e classica fustigatore inesorabile di ogni forma di mediocrità. Profondo conoscitore della natura umana, pianista, clavicembalista, didatta, e perchè no eccellente barzellettista. Con lui si rideva di gusto, si ascoltava musica preziosa, si decodificava Palermo nei suoi aspetti più reconditi, urbanistici, sociali, culturali e “curiosi”. Persona di un'intelligenza scoppiettante, di un gusto raffinato( autentico “arbiter elegantiarum” della società palermitana), di straordinaria icasticità nell'espressione dei suoi giudizi... Roberto Pagano è stato per me un grande Amico, un prezioso insegnante, un insostituibile fratello d'animo e di pensiero.
Un sentito grazie va a Loreto Insinna, mio grande amico e presidente dell'Associazione Libere Note, a suo figlio Vincenzo con il quale sono in contatto telefonico quasi quotidiano e a tutta la loro splendida famiglia, per l'aiuto fraterno che mi hanno sempre dato in varie occasioni. La loro amicizia costituisce anche oggi, per me, uno dei (pochi) punti fermi della mia esistenza.

La Palermo musicale degli anni Sessanta: il GUMN


In quel coacervo di situazioni musicali estremamente innovative e stimolanti, che alla luce di una straordinaria varietà e vastità di esperienze, caratterizza la musica del XX secolo, si colloca negli anni Sessanta, a Palermo, il GUNM( Gruppo Universitario Nuova Musica), che visse e si alimentò di di arricchimenti formali, armonici, timbrici e ritmici, in un panorama differenziato e spesso contraddittorio, avvalendosi , in misura non certo trascurabile, della presenza, nel capoluogo siciliano, del grande musicologo milanese LUIGI ROGNONI, titoloare per ben otto anni (dal 1963 al 1970) della cattedra di storia della musica dell' Università di Palermo( e dal 1971 in poi presso quella di Bologna), Rognoni fu attivo contemporaneamente in molteplici campi in qualità di regista , di editore, di organizzatore di grandi eventi musicali ,di direttore d'orchestra, di conoscitore profondo di estetica e studioso di ADORNO e della fenomenologia husserliana. Egli diede un contributo determinante alla conoscenza dell'avanguardia musicale europea in Italia organizzando le prime esecuzioni radiofoniche di opere di MALHER SCHOENBERG, WEBERN e BERG, ancora assai poco diffuse . Intanto, a partire dal 1946, si erano inaugurati, a DARMSTADT, città tedesca vicina a Francoforte, i “CORSI ESTIVI PER LA NUOVA MUSICA INTERNAZIONALE”, voluti e promossi da WOLFGANG STEINECKE. Nei successivi anni Cinquanta, esse diventarono la più importante occasione di incontri, scambi e discussioni fra i compositori di tendenza postweberniane e radicali, come MADERNA, MESSIAEN, NONO,STOCKHAUSEN e, subito dopo BOULEZ, XENAKIS,BERIO, CAGE, LIGETI, ecc. Proponevano, accanto ai corsi di composizione e di interpretazione, anche l'esecuzione di musiche ancora mai ascoltate in Germania, come le composizioni americane di STRAWINSKIJ , BARTOK HINDEMITH e SCHOENBERG. Ben presto la notorietà della cittadina tedesca di DARMSTADT crebbe a livello internazionale.
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Naturalmente, il GUNM palermitano ne fu molto influenzato, e l'allora giovanissimo ANTONINO TITONE, fascinoso e... richiestissimo assistente del Professore ROGNONI all'Università, si ispirò ad essi per inaugurare, nel 1960, le “SETTIMANE INTERNAZIONALI DI NUOVA MUSICA”, ciclo di manifestazioni organizzate allo scopo di proporre all'attenzione del pubblico quelle che allora rappresentavano le più recenti esperienze maturate nel clima dell'avanguardia musicale.
Così, direttamente o indirettamente, il GUNM svolse un'importantissima opera di svecchiamento e sprovincializzazione della cultura musicale, offrendo una serie di concerti volti a far conoscere quei capolavori musicali del '900, che, alla fine degli anni Cinquanta, erano ancora quasi del tutto sconosciuti al grande pubblico, nonostante la loro portata e il valore ormai “storico”. All'interno di tali manifestazioni diversamente da quanto accadeva in altri Festival degli stessi anni,veniva dato spazio anche a compositori esordienti, o comunque non ancora inseriti in circuiti musicali di risonanza internazionale. Del GUNM, nato originariamente per per iniziativa di LUIGI ROGNONI, fecero parte giovani musicisti, strumentisti o critici, che sarebbero diventate figure di riferimento della vita musicale siciliana, e non solo: PAOLO EMILIO CARAPEZZA, musicologo, docente presso l'Università di Palermo, studioso anche di musiche rinascimentali siciliane, ROBERTO PAGANO, insigne musicologo e studioso degli Scarlatti, ANGELO FAJA, latore, in qualità di primo flauto della Sinfonica, di esperienze internazionali, di altissimo livello, ENRICO ANSELMI, bravo pianista ed eccellente didatta, FABRIZIO CARLI, poi critico musicale del quotidiano palermitano “ L'ORA”, e la stessa sottoscritta, pianista, clavicembalista e didatta.

Eliodoro Sollima, “compositore non allineato”

Un posto a parte merita la figura, umana e professionale , di Eliodoro Sollina, nato, il 10 luglio 1926, a Marsala( città che gli ha dedicato il locale teatro comunale), in una famiglia nella quale non mancavano stimoli musicali.
Alla fine del secondo disastroso conflitto mondiale, egli si trasferì a Palermo, dove frequentò contemporaneamente il Liceo e il Conservatorio, conseguendo, grazie alle sue doti eccezionali, il diploma in Pianoforte e in Composizione, in soli 5 anni, rispetto ai 10 previsti dai rispettivi corsi ufficiali. Si avvalse dei preziosi insegnamenti della pianista MARIA GIACCHINO CUSENZA, e di PIETRO FERRO, già affermato compositore destinato a diventare Direttore del Conservatorio di Palermo. Apprezzatissimo da ARTURO BENEDETTI MICHELANGELI che, nel 1954, gli affidò la prima esecuzione italiana del KAMMERKONZERT di ALBAN BERG( l'esecuzione ebbe luogo in occasione del concertto di chiusura dei “ Pomeriggi Musicali” di Milano, solista ELIODORO SOLLIMA (pf) e SIRIO PIOVESAN (violino) – Sollima veniva intanto tracciando ed esprimendo la propria complessa e articolata personalità artistica nella complementarietà di tre diverse tipologie di esperienza musicale, ugualmente valide: quella esecutiva, compositiva e didattica. In quegli anni infatti, accanto agli importanti riconoscimenti per la sua attività pianistica ( era in grado di decodificare ed eseguire a prima vista qualunque spartito!), egli ne riceveva altrettanti come compositore, e iniziava, preso il Conservatorio palermitano(di cui sarebbe diventato poi il direttore) una fecondissima attività di docente di Composizione, formando alla propria scuola allievi come MARCO BETTA, GIUSEPPE GIGLIO, ANTONIO PAPPALARDO, CARMELO CARUSO e GIOVANNI SOLLIMA, suo figlio, già da giovanissimo violoncellista talentuoso, dal suono magico e dalla tecnica perfetta. Ai suoi allievi che lo adoravano, egli insegnava che “ per comporre bene, bisogna saper scomporre, ridurre la musica alla sua struttura essenziale “, e che “ tale capacità di smontaggio è indispensabile all'interprete, se vuol capire il peso di ogni suono...”
DANILO DOLCI, suo grande amico ed estimatore, nell'articolo “SOLLIMA EDUCATORE (1972) evidenzia come il ,Maestro non si ponesse mai in cattedra per trasmettere regole astratte, ma incoraggiasse i discepoli ad esprimere se stessi e a far crescere la propria personalità artistica, senza rimanere fossilizzati e bloccati dai cumuli delle regole tradizionali; da parte sua Sollima affermava, con intelligente modestia, che “ il Maestro non è che un allievo, che ha cominciato a cercare prima del più giovane allievo...”. Guardate che bellezza e unicità di rapporto! Intanto, la sua attività concertistica fioriva, prima in duo con l'estroso violoncellista Giovanni PERRIERA, e poi nel favoloso “TRIO DI PALERMO”, (costituitosi con l'aggiunta del violinista SALVATORE CICERO, spalla della SINFONICA SICILIANA e bravissimo solista), complesso che, nel 1969, grazie all'affiatamento dei tre interpreti, alla vastità del repertorio e all'attenta ricerca del suono, meritò il prestigioso premio nazionale “DIAPASON D'ORO”. La prematura scomparsa dell'ancor oggi compianto Cicero (1982) segnò la fine del prestigioso complesso, per il quale Sollima aveva composto, nel '68, “ I TRE MOVIMENTI”, per pianoforte, violino e violoncello. All'inizio degli anni Ottanta, si costituì il “SOLLIMA ENSEMBLE”, formato, oltre che da Eliodoro, dai figli Giovanni(violoncello), Luigi (flauto), Donatella e Valentina ( piano). Per l' ENSEMBLE, protagonista felice di molti concerti, Eliodoro scrisse numerose composizioni. Alla fine degli anni Novanta, già settantenne, egli si cimentò nella nuova veste di direttore d'orchestra; aveva infatti costituito il “GRUPPO STRUMENTALE DELLA PROVINCIA DI TRAPANI”, formato da giovanissimi strumentisti. Negli anni Sessanta, Sollima era stato tra i soci fondatori del GUNM, ma quando Titone diede avvio alle “SETTIMANE”-che rivolgevano l'attenzione soprattutto alle così dette “avanguardie postweberniane”- egli scelse, con ferma consapevolezza, di non partecipare, sia come esecutore che come compositore- Amava infatti rimare libero da etichette e da atteggiamenti estetici in qualche misura imposti o condizionanti, autodefinendosi “COMPOSITORE NON ALLINEATO”.
La sua vastissima produzione comprende composizioni da camera, pezzi per pianoforte solo,composizioni per orchestra e per solista e orchestra, pezzi sacri, frutto del suo profondo senso religioso( scrisse brani in memoria di condannati a morte), nonché numerose opere didattiche. Tale produzione è solida in ogni sua parte, ma al tempo stesso estrosa, sempre nuova e straordinariamente ricca di sorprese armoniche ed effetti dinamici, che rappresentano ed esprimono mille sfaccettature dell'inesauribile anima di Sollima.
Scomparve stroncato da un ictus, il 3 gennaio del 2000, lasciando in tutti coloro che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, il cocente rimpianto di un grande musicista e di una persona umana di grande spessore e di eccezionale rigore intellettuale e morale. Un pensiero di ammirazione e di affetto a tutta la famiglia, che ho l'onore di conoscere e stimare in tutti i suoi membri; sopratutto alla grande GIUSEPPINA, impareggiabile compagna di vita di Eliodoro, e alla mia carissima amica ANNA MARIA, da anni apprezzata docente di Storia della Musica al Conservatorio di Palermo.

Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara luglio 2016







giovedì 30 giugno 2016

Giuseppe Verdi e i “Vespri siciliani”

Il 30 marzo 1282, all’ora del vespro, scoppiò a Palermo una violenta insurrezione popolare contro la dominazione angioina,  che evidentemente da tempo covava nel cuore dei siciliani.
L'opera di Hayez rappresenta il momento iniziale dei vespri siciliani, la rivolta popolare che si ebbe in Sicilia nel 1282 contro la dominazione degli Angioini francesi, nata da un'offesa che, in concomitanza con la funzione serale dei vespri del 30 marzo 1282, lunedì di Pasqua, sul sagrato della chiesa del Santo Spirito, a Palermo, un soldato francese di nome Drouet arrecò ad una nobildonna che stava uscendo di chiesa al termine del suo matrimonio 

Propagatasi in breve tempo in tutta l’isola, l’insurrezione provocò l’abbandono della Sicilia da parte degli Angioini. Ciò diede modo a Pietro III d’Aragona, figlio di Giacomo I, di impossessarsi a sua volta della Sicilia, con l’aiuto, militare ed economico, delle repubbliche marinare di Venezia e Genova, nonché dell’imperatore bizantino Michele Paleologo. La guerra scoppiata tra Angioini e Aragonesi, nota come “Guerra del Vespro”, durò con alterne vicende per diversi anni, e si concluse con la Pace di Caltabellotta, firmata il 31 agosto 1302.
Con essa, la Sicilia fu assegnata a Federico d’Aragona, figlio e successore di Pietro III, alla morte del quale sarebbe dovuta tornare agli Angioini. Ma gli Aragonesi non rispettarono le clausole stabilite nel contratto, e conservarono il dominio dell’isola. Pietro III, anzi, che intanto era riuscito, grazie ad un’abile politica estera, a inserire l’Aragona in una rete di alleanze internazionale (fra cui quella con l’Inghilterra), sbarcò in Sicilia e si fece incoronare re, dando così inizio all’influenza spagnola nelle vicende storico- politiche d’Italia.
L’eroico tentativi dei siciliani, di liberarsi dal giogo straniero che li opprimeva, costituì un fulgido esempio di amore per la libertà, e ritornò di grande attualità nell’epico periodo del Risorgimento italiano. Ed ecco Verdi, che del Risorgimento stesso fu acceso fautore, accettare la proposta di scrivere una partitura di soggetto storico, per inaugurare l’Esposizione universale di Parigi!
Già dai tempi di “Nabucco”- che gli aveva aperto le porte di tanti importanti teatri- il nome di Verdi veniva automaticamente unito, nell’Italia risorgimentale, ai moti per l’unità e l’indipendenza, e perciò Cavour,  consapevole del suo peso politico,  lo aveva convinto a presentarsi candidato al primo Parlamento italiano (1861), per il collegio dell’allora Borgo S. Donnino, oggi Fidenza. Dopo un primo rifiuto Verdi accettò e fu eletto, ma frequentò la camera raramente e con irregolarità, pur essendo stato accolto, al suo ingresso al Parlamento, da un fragoroso applauso. In quell’occasione conobbe Quintino Sella, futuro risanatore delle finanze italiane.
Quando accettò di comporre “Les Vêspres Siciliennes” per l’ Opéra di Parigi, egli aveva poco più di 40 anni, e aveva raggiunto la piena maturità di uomo e di musicista, unità ad una fama ormai affermatasi anche al di là delle Alpi. Con quest’opera, composta due anno dopo “La Traviata”, su libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier, Verdi  olle riaccostarsi al genere drammatico a forti tinte, nel carattere del “Grand Opéra”.



La sincerità dell’ispirazione verdiana superò facilmente l’artificiosità piuttosto pesante del libretto di Scribe, e l’opera, rappresentata il 13 giugno 1855 all’Opéra di Parigi, ebbe un tale successo, che Verdi fu ufficialmente invitato a trasferirsi definitivamente nella capitale francese, cosa che egli non accettò. L’anno successivo (4 febbraio 1856), l’opera fu rappresentata, con eguale successo, alla Scala di Milano, al titolo di “Giovanna di Guzman”.
Ricordarne brevemente la trama varrà a rammentare il messaggio patriottico del grande musicista, che veniva progressivamente arricchendo la propria tavolozza armonica e orchestrale, introducendo un’umanità di affetti che comunicava al canto passioni accese e concrete, conquistava un linguaggio sempre più moderno ed aggiornato, affinava la scrittura vocale,  seguiva lo sviluppo civile e culturale della società italiana in uno dei momenti più epici e delicati della sua storia.
Preceduta da una solenne e famosa “Sinfonia”, il primo atto presenta Elena (sorella del duca Federico d’Austria, già giustiziato dai francesi) Arrigo, giovane siciliano,e Giovanni da Procida, esule appena tornato a Palermo; essi cercano l’occasione per stimolare una rivolta popolare contro i francesi. Si inserisce in tale contesto la romanza più famosa dell’opera, “O tu, Palermo, terra adorata”, con cui, all’inizio del secondo atto, entra in scena appunto la figura di Procida (basso). Ispirata a commossa tenerezza, la romanza prescinde momentaneamente dell’ “animus” rivoluzionario del personaggio, per dar voce piuttosto alla commozione dell’esule, che, tornando a casa, rivede finalmente la patria! Una vera squisitezza armonica è costituita, nella sezione centrale, dall’ impercettibile trapasso della tonalità di sol bemolle a quella di fa maggiore (e viceversa), senza che alcuna interruzione si noti nel corso della melodia.
Prerogativa del “Grand Opéra” erano i grandiosi concertati a più voci, senza i quali l’opera parigina non concepiva un “degno” finale dell’atto. Si ha così lo spettacolare finale del secondo atto, fondato su un contrasto di indubbia efficacia teatrale: mentre, sulla spiaggia, i siciliani, offesi per il torto delle loro spose, manifestano sentimenti di indignazione di vendetta, avanza nel mare una splendida imbarcazione, dove ufficiali francesi e nobildonne sia francesi che siciliane si divertono, adagiati su morbidi cuscini,cantando una dolce barcarola.
Ma, al di la di questo scintillante finale, autentica “chicca” da Grand Opéra, bisogna fermare l’attenzione anche sulla scena che lo precede, anch’essa un vasto insieme vocale, con un “concertato d’azione” di grande originalità. È la scena della costernazione in cui restano i siciliani dopo che i soldati francesi hanno portato via le loro donne. Qui Verdi rivela la conquista di un forte realismo drammatico della parola, più noto come “uso della parola scenica”.
Con i primi due atti dell’opera, si esauriscono i laboriosi, e talvolta macchinosi tentativi di descrizione ambientale e di presentazione dei personaggi. Le prime tre scene del terzo atto mantengono infatti la presenza costante di un personaggio, Guido di Monforte, governatore francese di Palermo, padre di Arrigo, ma ignoto al figlio, del quale egli vorrebbe conquistarsi l’affetto, mentre l’odio di parte li separa. Nella lunga e affollata “galleria” dei padri verdiani, spesso strumento di rovina per i figli (come Giacomo per Giovanna d’Arco, come lo stesso Rigoletto per Gilda o Alfredo Germont per violetta, come il Marchese di Calatrava, Filippo II o Amonasro), Monforte si inserisce con una propria nobiltà. Il personaggio esce da ogni schematizzo melodrammatico, per acquisire fierezza e indipendenza caratteriale, spessore e complessità psicologica.
Arrigo, saputo di essere figlio di Monforte, durante un drammatico confronto, avverte il padre della congiura contro i francesi, e il complotto fallisce. Elena, Procida e gli altri congiurati sono condannati a morte. Ma successivamente Monforte, implorato da Arrigo, che gli si rivolge finalmente in tono filiale, non solo perdona i congiurati, ma acconsente anche alle nozze di Elena col figlio. Ella, apprendendo da Procida che la campana nuziale sarà il segnale dell’insurrezione, soffre all’idea di essere causa di tanta strage e vorrebbe rinunciare all’amore di Arrigo. Ma è troppo tardi: davanti alla storica Cattedrale di Palermo, i “Vespri” si consumano, violenti e sanguinosi.
Così Verdi- dopo molti ripensamenti, nel corso dei quali fu più volte tentato di rinunciare alla stesura dell’opera, che non sentiva a se particolarmente congeniale, dopo la creazione di figure immortali come Rigoletto, Violetta o Azucena, capaci di vivere di vita propria- dava vita ad un nuovo capolavoro, in cui la grandiosità tutta francese dell’effetto scenico si fonde mirabilmente con l’umanità sofferta dei personaggi principali, la cui “sincerità” è sottolineata da melodie immortali e da vivo senso patriottico. 

Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara Giugno 2016



venerdì 27 maggio 2016

Il Verismo di Giovanni Verga e “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni


Nel secondo Ottocento, il terreno su cui la letteratura italiana s’impegna maggiormente e più compiutamente, è quello della narrativa, che, accostandosi in modo diretto alla vita quotidiana, opera un’attenta ricostruzione di ambienti, personaggi, situazioni e conflitti, così da fornire un’efficace immagine del mondo contemporaneo.
Il nuovo metodo rigorosamente realistico si basa sui fatti, su un’analisi delle condizioni ambientali e psicologiche che agiscono sui personaggi, e rifiuta ogni ingerenza del narratore nelle vicende narrate (è questo il cosiddetto “criterio del’’impersonalità dell’opera d’arte”).
Si mira infatti ad una narrazione oggettiva, che riproduca in modo esatto, e con un controllo quasi scientifico, le circostanze, come esse si presentano in veste spregiudicata e libera da suggestioni deformanti, di tipo ideale o sentimentale.
La grande diffusione di una letteratura di tipo realistico, portò ad un uso molto insistente del concetto di “VERO”, determinando, di conseguenza, l’adozione del termine “VERISMO” che, negli anni 1860 e 1870, assunse una propria specificità, autonomia rispetto al contemporaneo “NATURALISMO” francese, ispirato a Zola, Flaubert, Maupassant.
Il metodo verista venne elaborato, con i più alti e più coerenti risultati, da alcuni scrittori siciliani (per lo più provenienti dall’area geografica di Catania), primo fra i quali Giovanni Verga, a buon diritto considerato l’iniziatore del movimento verista italiano.
Nato a Catania (o, secondo altri, a Vizzini) il 2 settembre 1840, da famiglia di piccola nobiltà agraria e di orientamento antiborbonico, si sentì subito attratto da una forte vocazione letteraria, che la famiglia non ostacolò. La sua vocazione di scrittore prende avvio dall’iniziale ricerca di un “centro”, al di fuori dell’originario mondo siciliano.
Ma proprio il contatto con le più vitali città del nuovo Stato unitario italiano (quali Firenze e Milano) determina ben presto in lui la riscoperta delle radici “provinciali”, una spinta verso il recupero della realtà siciliana, per dar voce a quel mondo rimasto per tanto tempo fuori dal “divenire” nazionale, e dominato da leggi dure e immutabili.
La “conversione” al verismo nasce, per Verga, con la pubblicazione della novella “NEDDA” (1874), seguita dalle novelle “VITA NEI CAMPI”(1880) e “NOVELLE RUSTICANE” (1882), cui si accompagna anche la pubblicazione de “I MALAVOGLIA”, primo romanzo del progettato “CICLO DEI VINTI” (1881).
Il mondo contadino siciliano diviene così incontrastato protagonista, ben ancorato ai suoi valori arcaici ed immobili, popolato di personaggi dominati da passioni elementari e originarie. Questo mondo appare governato, al pari dell’antico mondo eschileo, da una “fatale necessità”, mentre la campagna siciliana si rivela, a sua volta, attraverso i suoi ritmi inesorabilmente uguali, che scandiscono la miseria e il lavoro più ingrato, attraverso l’inospitalità della natura, la violenza reciproca tra gli uomini, l’egoismo individuale, a sua volta motivato da immutabili gerarchie sociali e tradizioni secolarmente consacrate ed inamovibili.
Per rappresentare questo mondo, Verga si basa su una rigorosa documentazione, su dati concrete (e da lui stesso raccolti) sulla vita dei pescatori e dei contadini dell’isola, su usi, tradizioni, proverbi e modi linguistici del popolo siciliano.

Della raccolta “VITA DEI CAMPI” fa parte la novella “CAVALLERIA RUSTICANA”, alla quale toccò in sorte un eccezionale successo, soprattutto nella versione musicata, nel 1889, dal livornese PIETRO MASCAGNI (1863- 1945), musicista che il successo di “CAVALLERIA RUSTICANA” sottrasse alla modesta condizione di maestro di provincia.
Quest’opera in un solo atto (su libretto di Giovanni Targioni- Tozzetti e di Guido Menasci, anch’essi livornesi) fu rappresentata per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma, il 17 maggio 1890, nella superba interpretazione del palermitano Roberto Stagno e di Gemma Bellincioni, e sotto la direzione del napoletano Leopoldo Mugnone. Essa è ambientata, alla fine del XIX secolo, in un piccolo paese della Sicilia, e fu presto assunta come manifesto del “Verismo” musicale. Fruttò a Mascagni il primo premio in un concorso bandito dall’editore EDOARDO SONZOGNO, e conquisto di colpo fama internazionale.
Il successo del melodramma mascagnano, sintesi mirabile di impeto drammatico e carica melodica, che si effonde nelle bellissime romanze e nel celebre “Intermezzo”, indusse Verga ad una lunga azione legale contro il musicista e l’editore Sonzogno, al fine di rivendicare i propri diritti economici. Al termine della vertenza, egli incasso la considerevole somma di 143.000 lire!
Nell’ultimo ventennio della sua vita, lo scrittore si ritirò definitivamente a Catania e, nella sua villa di ricco possidente a riposo, ridusse sempre più l’attività letteraria.
Visse l’inizio del nuovo secolo appartato, chiuso in una tetraggine di conservatore, restio ad ogni novità della vita sociale,, ossessivamente preoccupato dell’amministrazione del proprio patrimonio, spesso tormentato da risentimenti personali e da cattivi umori.
Fu nominato senatore nel 1920.Colpito poco dopo da trombosi cerebrale, morì a Catania il 27 gennaio 1922.

Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara Maggio 2016


giovedì 14 aprile 2016

Spigolature su Vincenzo Bellini


Proseguendo nella mia … passeggiata tra i compositori siciliani, non potevo certo omettere la figura del catanese Vincenzo Bellini! Ne toccherò quindi alcuni aspetti fondamentali, senza pretendere di aggiungere nulla di nuovo rispetto a quanto, nei secoli, è stato scritto su di lui.
Da bambina, suonavo già il pianoforte, con … impegno altalenante! Mio padre, un direttore bancario, ma con una spiccata sensibilità per la musica (piangeva- ricordo- quando ascoltava il finale de “La Bohème”), adorava “La Sonnambula” di Bellini e, tutte le volte che poteva, mi invitava a suonare le romanze più famose di quel capolavoro operistico, che io venivo assimilando e imparando ad amare, quasi senza accorgermene.
Fu così che mi accostai al “cigno di Catania”, nato in quella città nel novembre del 1801 sotto il segno sofferto dello scorpione, da una famiglia di musicisti.
Il nonno Vincenzo, suo primo maestro, era operista e fecondo autore di musiche sacre. A lui il talento del piccolo nipote si rivelò con evidenza attraverso brevi composizioni eseguite nei salotti della buona società o nelle chiese del capoluogo siciliano.
Una generosa borse di studio concessagli dalle autorità locali. Permise al giovane di completare gli studi musicali presso il prestigioso conservatorio di Napoli, dove ebbe come maestro “NICOLA ANTONIO ZINGARELLI” organista assai noto e compositore di rilievo, Maestro di Cappella prima nel duomo di Milano e poi in S. Pietro, direttore del “Real Collegio di Musica” di Napoli (poi Conservatorio), compositore ammirato e assai fecondo, soprattutto di messe e di musiche sacre, conservate per la maggior parte nell’archivio della Santa Casa di Loreto.
Vincenzo Bellini, il perugino Francesco Morlacchi e Saverio Mercadante furono i suoi allievi di eccellenza.
Al Conservatorio di Napoli, Bellini strinse affettuosa amicizia anche con il bibliotecario di quella Istituzione, FRANCESCO FLORIMO, destinato a diventare suo biografo ufficiale.
L’opera semiseria “ADELSON E SALVINI”, scritta nel 1825 per il saggio scolastico che concludeva il suo iter di studio, fu il suo primo melodramma, a seguito del quale gli giunse la commissione ufficiale per “BIANCA E FERNANDO”. Eseguita al teatro di San Carlo per una serata di gala, con felice esito.
Per consiglio di DOMENICO BARBAJA, famoso impresario teatrale milanese, Bellini si trasferì nella capitale lombarda, dove il trionfale successo riportato nel 1827 alla “Scala” con l’opera “IL PIRATA”, inaugurò, fra l’altro, quella feconda collaborazione con il librettista genovese FELICE ROMANI, destinata a durare tutta la vita. Ma il trionfo e il riconoscimento internazionale arrivarono con “LA SONNAMBULA” (Teatro Càrcano di Milano, 1831) e con “NORMA”, accolta tiepidamente alla “prima” scaligera del 26 dicembre 1831, ma già applaudita come un capolavoro alla seconda serata. Con “Norma”, bellini raggiunge l’apice del proprio purissimo lirismo vocale, dimostrando, al tempo stesso, una non comune “vis drammatica, che si rivela sia nella maestosa e incisiva chiarezza dei recitativi” e delle arie, sia nella ieratica solennità della massa corale, che, simile ad un grande affresco, fa da sfondo alla tragedia della sacerdotessa fedifraga.
Quando, a 35 anni ancora non compiuti, Bellini morì a Puteaux (nei pressi di Parigi) di una grave malattia intestinale che lo affliggeva da tempo, aveva composto solo dieci opere (a quelle già citate vanno aggiunte “LA STRANIERA”, “ZAIRA”, “I CAPULETI E I MONTECCHI”e “I PURITANI”), a differenza di ROSSINI e Donizzetti che, alla stessa età, avevano già completato un numero ben maggiore di opere.
Lo stato di salute precario e il suo modo di lavorare, interrotto da frequenti ripensamenti, lo induceva a seguire ritmi di produzione più lenti e meditati.
Astenutosi del tutto genere comico, che per indole non gli era congeniale, egli valutava e sceglieva con molta attenzione ogni elemento dei suoi melodrammi: in essi, la tensione emotiva e lirica si concentra soprattutto sulla voce e sulle melodie limpide e chiare, mentre la strumentazione, lineare e trasparente, a con duttilità commossa ma sempre discreta, animata da una tenera malinconia, all’insegna di un ritegno che definirei aristocratico.
L’uso accorto ma estremamente funzionale degli abbellimenti, di periodi ampiamente cantabili, la particolare sensibilità armonica (con frequenti scambi tra “maggiore” e “minore”), il sottile uso delle dissonanze e ardite modulazioni a toni “lontani”, contribuiscono a dilatare le sue melodie, conferendo loro una sottile e nuova sensualità timbrica e coloristica, che ha indotto Ildebrando Pizzetti a definire Bellini “il più puro lirico di tutto il teatro musicale dell’Ottocento”

Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara Aprile 2016